"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 1 ottobre 2007

DISPACCI INDOCINESI/2 (UFFICIALI)

Chicchi scotti di un guerrigliero ritardatario
Indochina’s highway to hell 2007



“Io, l’orizzonte, mi batterò per la vittoria, perché sono l’invisibile che non può sparire. Sono l’onda. Aprite tutte le chiuse, affinché possa dilagare e travolgere tutto!”
(G. Apollinaire – Tendre comme le souvenir)


24.07.07 – h. 00.48, sopra le Piramidi di Sakkara 
(volo EgyptAir Muenchen-il Cairo-Bangkok)

Prologo:

C’è un numero di matricola marchiato nel fondo di ognuno di noi. Per alcuni, candido anno di nascita, intangibile nella sua purezza. Per altri, sigillo di vergogne che vorremmo ermeticamente alle spalle. Ma non c’è nulla da fare. Gli spifferi del tempo sono condannati a farsi squarci di verità, argentando le nevi e piegandoci al perdono. Al banco dei testimoni, dentro la nostra culla, sediamo sempre e al tempo stesso in qualità di vittime e carnefici.

Ossessionati dal rendere ragione, non possiamo che scomporre le cifre a noi ciecamente assegnate sino a scorgerne i segreti varchi, celati in notti ben più cupe di quelle in cui abbiamo udito il primo vagito, prossimi alle lande del dolore primigenio, dove le lacrime non hanno volto e la pietà ci fa uomini ancor prima che cittadini, fratelli ancor prima che compagni.

Spingersi oltre, in là, è per noi un regredire alle immagini dell’archetipo, perché dietro le parole del nuovo udiamo assonanze enigmaticamente familiari, come se nessuna cesura si fosse mai frapposta fra la conquista dell’io e la riscoperta del noi.

E’ il segreto dell’occhio di Horus, rivolto alla mano alzata sul proprio seme e alla punta estrema delle piramidi vetuste, alla caduta nel tempo e alla porta dell’eternità.

Ovunque poseremo il nostro sguardo, saremo immancabilmente sulla soglia. Al di là della vita e della morte, anime fluttuanti in cerca di carne fresca, affinché di volta in volta siano riscritti i segni del cammino infinto.

26.07.07 – h. 18.48, Hualangphon Railway Station - 
Bangkok (sedile riservato al farang)

Troppa gentilezza finisce per rendere dannatamente sospettosi. Di tutto e di tutti. Le guardie di frontiera che sorridono amabili. I tuk tuk pronti a sacrificarsi ciecamente nel traffico in perenne tilt. Le guesthouse di Kao Sao cui non mancano mai amene sale massaggio, per ammorbidire la fatica pedestre del nomade che “non può non riposarsi”. Astuzie hegeliane al costo di 3 bath.

Bangkok non lo dice apertamente, ma invita a prendere la vita con mollezza. Fa sì che si scivoli su di essa come lumache nel burro al curry. Che poi ci si ritrovi fritti in padella è un eccesso di malizia capace solo di farci apparire smaccatamente occidentali, scortesi; avremo tutte le ragioni del mondo, ma alla fine ci diranno che abbiamo frainteso. Niente più. Alla verità si arriva, se mai si arriva, per vie oblique.

La chiamano Città degli Angeli e noi, figli di S. Tommaso e Cartesio, ci logoriamo ad interrogarci sul suo sesso. Ma la nostra volontà di sapere diviene ai loro occhi un infido smascherare.

Se i fiori sbocciano sul Wat Arun è perché in Oriente un tempio consacrato all’alba dischiude le sue labbra per liberare i sospiri della meraviglia; è vero, il thailandese costruisce cittadelle reali sempre cinte da mura: ma solo per meglio preservare la sorpresa delle pagode dorate, i cui tetti s’incurvano come archi di Cupido pronti a trafiggere il nostro rude cuore. Qui non conoscono la parola proibito. I cittadini di Bangkok si fanno piccoli piccoli di fronte allo straniero, al farang, perché anche Buddha veniva da lontano e, stanco, scelse infine di distendersi per 46 metri sotto i teak del Wat Pho.

Sono però loro a non aver capito che i suoi occhi chiusi non cercano di distogliere lo sguardo in segno di deferenza. Rifiutare di vedere quanto si ha attorno significa perseguire il distacco dall’adipe godereccio, senza indugiare in ossequi tanto numerosi da avere inevitabilmente un costo. A metà strada fra il candore innocente e il rosso sanguigno, la gialla Bangkok s’imporpora come una timida vergine che, nel bene o nel male, pensa sempre e solo a quello.

27.07.07 – h.13.51, strapiombo di Preah Vihear (accanto ad una mina)

Né di qua, né di là. Preah Vihear se ne infischia dei confini e guarda tutti dall’alto. Sa bene che, nel giro di lustri o secoli, qualcun altro verrà a tracciare nuove righe: preoccupato di riempirsi più la bocca del suo nome, che di dare un sostegno alle architravi della sua vecchiaia, in mezzo alle quali il vento ulula beffeggiante.

Per cui la smettano gli archeologi pedanti di chierdersi che volto avessero i leoni di guardia alla scalinata d’accesso, o quale mai fosse l’espressione dei bassorilievi di Shiva e Vishnù! Per quanto erosi dalle troppe piogge e sfregiati dalle pallottole rosse, sarebbe apparsa comunque di un’imbarazzante atarassia. Virtù dei grandi saggi.

Il tempio degli antichi khmer mostra infatti una pazienza infinita, perché tollera la cantilena dei bimbi in cerca di riel, così come gli acuti malinconici di un violino monco, il placido russare di un’amaca incapace di riallacciare i suoi tendini spezzati, così come il cappello teso di un reduce malconcio, ormai inutile sul suo capo andato in frantumi. Sopporta di gradino in gradino, stanco e reumatico, ma quando scoppia sono guai per tutti.

Ha lasciato arrugginire i propri cannoni e dimenticato come si usano le mitragliere dei suoi bunker, ma non abbassa mai la guardia. Tutt’al più sonnecchia. Non a caso fu casa prediletta dei guerriglieri senza terra. Attenzione, dunque! E’ sufficiente un passo falso: e i brandelli di carne conosceranno la gloria dei cieli.
Oh, mai pellegrino fu tanto vicino al suo dio…

28.07.07 – h. 21.58, strada senza sbocco (Anlong Veng)

Il silenzio, all’improvviso. Il 1975, di nuovo. Ottanta chilometri dal confine thailandese valgono almeno 30 anni d’incubi. Le strade si sono fatte rosso sangue, polvere della polvere. Il cielo minaccia, tanto più tirannico, quanto più lontano si fa il burocrate di bronzo che sta inchiodato ad O Smach. Dalle palafitte, solo occhi stralunati. Per la malaria, o per l’incredulità, una scomessa che sarebbe costata due pallottole dritte in fronte. Via, via, la moto corre senza mai indugiare. Neppure una volta: non teme i ponti marci, non presta attenzione ai ruderi bruciati, ma guai a sgarrare dal tracciato. La maledizione dell’Angkar fa tremare il suo manubrio di finto acciaio, arrugginito nell’unico mito permesso: il Grande Balzo in Avanti. A destra solo mine. A sinistra solo scheletri. Dietro, una notte così buia da ottenebrare la mente senza possibilità di ritorno. Ta Mok è sui muri. Pol Pot nelle ceneri. Dei khmer rossi restano solo corpi senza teste, scolpiti in rocce che paiono pronte a schiacciarti. Eppure le paludi continuano a regurgitare gli stessi fantasmi. I tic a tormentarti ininterrottamente da quel dannato giorno d’aprile, che non è ancora passato. E probabilmente mai passerà. A costo di qualunque geranio fiorito, là dove mai te lo saresti aspettato.

29.07.07 – h. 18.17, in sella alla ruota del Karma (Chong Kneas)

Non c’è posto sicuro, se non la strada dove il sole batte sino a farti alimento delle risaie. A Siem Reap sei solo una distrazione, una ferraglia che prende forma nel rischio d’investimento. A Chong Kneas un ostinato pesce fuor d’acqua. Mille barche pronte a farti naufragare lontano da vite annegate, cento canoe che trasportano tutto ciò di cui non hai bisogno. Ti fanno mangiare la polvere, se non accetti di domare la tua curiosità. Ti occhieggiano sospetti, se ti fermi sulla soglia di capanne che issano bandiere sconosciute. Progetti filantropici di salvatori senza volto: una pompa per l’acqua, un tetto per chiudere gli occhi e mettere l’animo in pace. E nel mezzo, tutto un fiorire di bimbi che ridono per il solo gusto d’inseguire, di pescatori che esalano il piacere di riparare sotto le palme da cocco, di anziani che tengono il volume degli altoparlanti al massimo, affinché ritrovino l’ingresso al tempio dove pregare che tutto torni come prima. Posarsi come farfalle. Ecco il segreto per preservare la delicatezza delle stagioni. Giù dai pedali, la stanchezza ci guida solo alle insidie dei karaoke. Alle carezze che trascinano nell’ombra. Ai capolinea della pietà.

30.07.07, h. 11.47 - lato in rovina del Ta Prohm (complesso di Angkor)

Prima o poi se ne andranno. Anche loro. Ma non prima di aver violentato, deriso, insozzato e svilito l’ultimo sussulto di dignità della Cambogia. Vengono soltanto per rimirare se stessi attraverso Angkor, quasi questi templi fossero una mera scenografia per l’ennesimo film hollywoodiano, anziché l’ossessione del monte Meru. Uno. Due. Cento volte. Il conto si perde. Per gli imperatori khmer costruire templi era già una sfida contro i limiti della propria natura, ma di ben altro genere. Imporre il cosmo all’accidentalità dell’individuo.

Oggi è il volto dell’uomo qualunque a reclamare la smorfia dell’essere. Il manierismo della posa. Malato cronico di miopia, non riesce più a spingersi oltre la propria immagine. Tutto è per lui cornice. Così vaga incerto fra corridoi senza vero sbocco, si attarda a cercare scorci da cui affacciarsi; invidia bilioso la flessuosità delle apsara in equilibrio sui cornicioni, adula l’irremovibilità dei guerrieri armati davanti alle torri Naga. Ma ogni volta manca il centro. Ogni volta è fuori posto. Non è tuttavia colpa delle liane e delle radici se le sue geometrie sono state innervate dal tumore della dispersione. Ancora non ha capito che la jungla ricicatrizza ogni strappo. Perché il solo modo di affrancarsi dalla natura è assecondare la propria. Ma come ragionare con una scimmia che si strappa i peli?

31.07.07, h.18.34 – cloaca di Battabang

Troppo tardi. Il fratello n.3 è riuscito una volta ancora a defilarsi con una tempestività insospettabile per un ultrasettantenne. E Battabang è rimasta a guardare. Come sempre. Non riesce a scrollarsi di dosso la sua eredità coloniale. Si logora nell’attesa del ritorno, qualunque sia il nuovo padrone. I francesi che hanno profumato le sue vie di bistrot e boulangerie. I khmer rossi che le hanno tolto il pane di bocca. I vietnamiti che ne rimpiangono l’aroma, dopo averlo avversato a colpi di scodelle di riso. Dimenticare quello che si è stati è la tortura peggiore, quando senti che la storia ti scorre accanto. Fra le pietre preziose di Pailin, sulle colline ovattate, lungo le torbide acque del fiume Sangker. La sue case nobilmente decrepite e le sue vie sporche di terra continuano ad essere considerate un avamposto. Una base per guardare al di là. Nessuno l’ha informata che i profughi non l’hanno mai tradita. Giacciono tutti dietro l’angolo, montagne d’ossa neppur graziate da una pallottola. Finite a bastonate, vomitate negli orridi, soffocate da uno stupa pesante come un mattone sul cranio. Se solo i suoi cittadini imparassero a parlare ad alta voce! Forse si renderebbe conto che in centro girano anche quanti non l’hanno mai dimenticata, benché riconoscerli sia difficile. Molto difficile. Quasi come pensare ad un vecchietto che sfalcia il suo giardino, con la stessa abilità con cui mieteva vite umane.

02.08.07, h. 12.36 – Tuol Sleng, ritorno a scuola

Fruscii di palme. Cancelli che cigolano. L’eco dei passi sulle scalinate inghiottite nel grigio. E poi quel cartello: “divieto di ridere”. Il vecchio liceo della capitale non ha perso il vizio d’impartire ordini, ma nulla può contro gli spettri che vagano per le sue aule abbandonate. Ha messo tutti in riga sui pannelli della vergogna, quasi volesse ricordare ciascun volto passato di qui; sviscera con meticolosa cura l’eclisse della ragione; fa retorica della povera Bophana e sfoglia i registri per raccogliere lo sdegno in bella calligrafia. Non prova vergogna nel mostrare i corpi carbonizzati sulle reti delle torture; scruta negli anfratti soffocanti delle cellette sporche di sangue. Martella nella mente: vedere, conoscere, capire. Chi entra a Tuol Sleng ha l’obbligo d’ingoiare la disperazione e digerirla il prima possibile. Guai a metabolizzare troppo il suo peso. La pietà spaventa più della forca. Non c’è posto per emozioni sottaciute. Per l’intimità del proprio dolore. Tutto dev’essere ricondotto al giudizio del noi. Perché l’Uomo ritrovi se stesso, non l’inezia passeggera dell’individuo.

Non c’è niente a fare: scuola, carcere e museo sono tutti figli della stessa madre.

03.08.07, h. 20.39 – Phnom Pehn, al riparo da un tifone

Ovunque ci si voglia spingere, aggirare Tuol Sleng è impossibile. Oltre la scuola che pretese a tal punto disciplina, da fagocitare studenti e professori prima, prigionieri ed aguzzini poi, rimane solo il vuoto della forma. Per quanto Phnom Pehn cerchi infatti d’imbellettarsi coi fasti di un re dalla doppia faccia, o – ancor peggio – con pagode e wat che si fingono venerandi per far pesare una saggezza ormai decisamente insipida, il suo cuore batte fuori dal proprio corpo. Là, nelle fosse fangose di Choeung Ek, dove di tanto in tanto riemergono lembi di memoria e frammenti d’ossa, teschi che ti fissano senza ragione, forse perché increduli di fronte al miracolo della vita che ritorna: essere o non essere, questo è il problema. Oggi come ieri. Il suo cuore di tenebra è uscito allo scoperto, lo ritrovi persino nell’insegna di un locale che fa il verso all’orrore, danza sulle sue spoglie col beato passo di un’apsara ribelle.

Basta regole. Basta leggi. Meglio essere inventori di sé, che pedine di governi incapaci di ammettere da dove vengono. Anche qualora smembrare e ricomporre il proprio corpo finisca per essere niente più che un tirare a campare. Sotto i ponti del Tonlé Sap, o fra le ironiche aiuole del monumento all’Indipendenza: un’enorme ananas che, a ben guardare, è solo un nugulo di serpenti. Proprio come il paradiso promesso da Pol Pot. Luogo che non ha luogo. Insanabile disgiunzione di anima e corpo.

05.08.07, h. 17.56 - Ho Chi Mihn City, riflessi di una vetrina

Occhi aperti! Il traffico di Saigon è un nemico ancor più spietato di uno yankee a corto di hamburger. Non guarda in faccia a nessuno. Ti strapazza coi clacson, ti acceca coi neon, affumica le medaglie bolse degli eroi e insidia i loro musei con negozi all’ultimo grido. Non ha bisogno degli slogan ridondanti che imbrattano i muri ad ogni angolo. Si fida solo del proprio fiuto. Esattamente come una bitchbiker che sbuca alle spalle nella notte. Avanti! Avanti! O si conclude, o si va! Non è più tempo delle stanche code che si allungavano davanti ai magazzini statali del riso. Questa è l’epoca-istante del Dao Moi, del dammi prima che sia troppo tardi. Gli scheletri degli elicotteri in mostra spaventano ancora troppo. I tragici scherzi dell’agente arancio parlano di una bruttezza che è già dietro l’angolo. Finché lo zio Ho se ne sta seduto a coccolare i suoi piccoli davanti all’hotel de la Ville, conviene scorrazzare come matti da una vetrina all’altra. In fondo, mettere l’orrore in mostra aiuta a distogliere l’attenzione da dove si genera. Finché il poliziotto rosso si bea del suo cubo altezzoso nel caos delle discoteche, meglio scatenarsi in balli inconsulti. Chi lo sa che accadrà domani? Un nuovo carroarmato potrebbe scoppiare l’ultimo colpo sul Palazzo della Riunificazione e fare cenere di un mondo che già si pensava nelle mani del dollaro. E allora chiudi gli occhi e vai! Nessuna striscia pedonale è mai sicura e sbiadisce inevitabilmente come i capelli del Partito.

06.08.07, h. 20.43 – Tay Nihn/Cu Chin, nel regno dei topi

Alcuni sono gialli. Altri blu. Ci sono pure i rossi e i bianchi. Tutti in fila, ordinati e dediziosi. Lasciano sbirciare nel loro tempio dove l’occhio divino comunque scruta, ma mantengono sempre una velata distanza di sicurezza. Ben venga l’ecumenismo: ci siamo comunque noi e ci siete voi.

Troppo intenti a dare spettacolo, i caodaoisti si sono dimenticati dell’affresco dei loro tre saggi: quei Sun Yatsen, Nguyen Binh Khiem e Victor Hugò che nella fantasia del mistico Ngo MinhChiu si ritrovarono a firmare la Terza Alleanza fra l’Uomo e Dio, ignari delle proprie radici.

Forse fa comodo così. Squittiscono in attesa del formaggio cui dare l’assalto.

Proprio come i vietcong, rintanati nei cunicoli di Cu Chin. Ben venga il socialismo: ci siamo comunque noi e ci siete voi. Invisibili e dappertutto, continuano ad esser custodi di segreti sotterranei che trapelano solo fumi fugaci e danno in pasto fucili giocattolo. Là dove pensavamo di aver scavato un punto fermo, loro sguisciano fuori e dentro. Là dove eravamo convinti di poter allungare di nuovo il passo, il terreno non regge il peso della nostra moneta. I crateri dei B52 sono per loro buchi di un groviera dove zampettare in su e in giù. E la ghiottoneria dell’astuzia orientale siamo di nuovo noi. I predatori che non hanno capito ancora di esser tornati prede.

08.08.07, h. 14.12 – Mui Ne, impigliato in una rete

Eccolo, il mare! Azzurro occhieggiare di palme impertinenti. Fuga infinita di sabbie bruciate, su cui strisciano e sbuffano invisibili draghi sopiti nel vento. A Mui Né si respira, finalmente. Si segue l’onda. La si cavalca roteando ebbri in ceste di vimini, cappelli capovolti e rapiti chissà dove.

Qui l’argento non è il luccichio delle reti spiegate, ma il sorriso del forestiero al levar della mano. Pare un curioso pesce tropicale, inspiegabilmente finito in secca. Invece è un uomo. Anche lui. Per quanto lungo possa essere. Qualunque sia il colore delle alghe che porta in testa. Meraviglia toccarlo! Spasso per i piccoli e scoglio per i grandi, è irresistibile tabù. E’ qui. E’ là. Risale la fonte delle fate facedosi piccino piccino. Torna sulle proprie orme, eppure ha piedi che esorbitano il ritratto del tempo. L’hanno visto sospirare. Altri dicono boccheggi. Oh mare, mare! Prima la gioia, ora la malinconia. Se solo avesse parlato..e invece nient’altro che un bacio, schiocco di labbra posatesi su un granello in fuga. Addio. Arrivederci. Si spalancano le bocche, il vecchio risponde da profeta: serrando la sua.

09.08.07, h. 13.59 – ponte del voyeur, Hoi An

Prima la strada. Poi la panchina. Infine il ponte. Per sconfiggere la claustrofobia di Hoi an occorre spingersi sempre più a margine, trovare un angolazione che non si chiuda nella necessità dello scambio, così come nell’appartenenza ad una congregazione, ma riveli piuttosto una via di fuga nel dedalo dei suoi vicoli ammiccanti. Bisogna liberare le orecchie dai continui richiami lanciati dalle botteghe dei sarti o dai risciò a terra, dai mercati brulicanti e dalle famiglie in cerca di nuovi adepti, pronti a ripetere lo stesso invito nell’unica lingua che vieta l’estraneità: “buy something!”.

Vendere e comprare è categorico qui. Avere le mani in pasta significa preservarsi da rivalse tanto distruttive, d’aver ridotto ad un cumulo di torri cadenti l’impero dei Cham, le cui spoglie senza testa e senza arti inquietano le foreste appena alle spalle della città. Perché se i giapponesi hanno il loro ponte di legno a prova di terremoti, i cinesi vantano porte laccate dietro cui inventare il prossimo desiderio che sconfigga la sazietà del bisogno; se i portoghesi possono contare su moschetti d’ineguagliabile precisione, i vietnamiti sorridono perché non c’è altro porto dove il mondo intero riesca a darsi appuntamento. Tutti impegnati a far apparire il proprio superiore all’altrui, indispensabile complemento di una vita cui non è concessa distrazione.

Si lavora meticolosamente per deformare l’immagine della realtà, senza accorgersi che spacciare Hoi An per un intonso borgo del XVI secolo finisce per creare aspettative che nessuno spettacolo in costume può soddisfare. Tanto da evocare il temuto spettro dell’inflazione, che non concede ritagli alle brutture e istantanee alla vita che divora le stoffe. Stare a lato non basta: finisce per attirare sguardi concupiscenti e trasforma nell’ennesima bancarella dalla mercanzia bizzarra. Solo a cavallo di un ponte, dove la vertigine mette in gioco il sé, è davvero possibile riconoscere un mondo che sta al di là dell’intuito di Mandarino Tan.

12.08.07, h. 17.47 – sullo zerbino degli eunuchi, Hué

Espugnare Hué costa sempre lacrime e sudore. Hanno faticato i francesi, nonostante le truppe dell’imperatore si difendessero con fucili più innocui di frecce a salve; hanno sputato sangue gli americani, rossi di vergogna per l’offensiva del Tet. Il problema è che la vecchia capitale vietnamita resta comunque lontana, interdetta a chi non può vantarne i nobili natali. Gli echi del suo Oriente così sfarzoso, delle sue carrozze intarsiate d’oro e dei suoi palazzi incastonati di giada ci giungono alle orecchie come suadenti esotismi, da cui però siamo appena sfiorati. Ancora ancora possiamo immaginare l’alterigia dei colonialisti che pesta i suoi tacchi sui parquet laccati; proviamo quasi solidarietà per i cannoni protesi di un tank arrischiatosi sotto le mura della città proibita, ma davanti alle tombe di certi Nguyen e Mna Mnihn balbettiamo impacciati nomi e riti che non ci appartengono. Siamo impotenti come i mandarini pietrificati in linea agli ingressi dei sepolcri imperiali, in attesa di una parola che ridarà loro il sangue nelle vene. A noi, tutt’al più, è concesso fantasticare d’intrighi cortigiani e peccati consumati all’ombra delle lanterne, popolino che si conforta nella ridondanza dei proverbi e nella rassicurante certezza che tutto il mondo è paese.

Nulla di più errato di fronte ad una corte che continua a cibarsi di flauti incantatori e draghi gravidi, aristocraticamente orgogliosa dei suoi codici criptici. Guardare e non toccare! Ai proletari delle biciclette, che avanzano ingabbiati dal monotono passo del pedale, la corte risponde con gli eccitanti barcollii delle portantine solcate dai parasole. Ma nascondersi alla luce non li aiuterà a spingersi oltre il vuoto titolo di cui si fregiano.

13.08.07, h. 14.56 – parco per esercitazioni di Tai Chi, Hanoi

Inossidabili Vietcong! Come potevano pretendere di piegare la loro resistenza, quando persino un ottantenne si asserpenta come un drago all’alba, mentre fende l’aria umida dei reumatismi? Con che smisurata tracotanza si è combattutto il loro comunismo, se le fila al mausoleo di Ho Chi Mihn sono più ordinate di un reggimento di formiche all’assalto? Non si fermano mai. Abbassano le serrande la notte, ma fanno la guardia alla porta. Dedicano musei alle proprie etnie, così come razionano ogni singolo chicco di riso. Dividono i quartieri per generi, anziché per gusto. Ordinano, classificano, appuntano. Non lasciano nulla al caso, eppure confondono sgommando a destra e a manca attorno al lago Hoan Kiem, dove nascondono il loro più temibile segreto. Il caos di Hanoi è solo fumo negli occhi, l’ennesima astuta tattica per spiazzare il forestiero e sorprenderlo sotto abiti civili. Usano elmetti come caschi. Gli ao dai si chiudono severi come divise. Danno spettacolo, ma hanno il manganello dietro le spalle, proprio come le marionette d’acqua, che si azzuffanno col sorriso stampato sulle maschere. C’è una rigidità sottaciuta nel loro porsi, che solo l’orgoglio tradisce: spacciano per un loto di marmo il sacro talamo dello Zio Ho, ma non è niente più che una piramide di cubi. Lustrano di rosso i ponticelli sulle ninfee, ma non si fermano a contemplarli. Onorano l’antica scuola dei mandarini, rintuzzando i tetti di bambù e spolverando le pareti di sandalo, ma non rinunciano ai loro dialetti. L’adagio è sempre lo stesso: ossequia, copia e riadatta.

15.08.07, h. 16.43 – sotto un masso pendente di Tam Coc

Ritirata tattica. Scivolare nelle strette valli di Tam Coc, dove le montagne si arrotondano in una sequenza spudorata di seni rigonfi, ha un po’ il sapore di un diversivo codardo. Fra buoi al pascolo e barche arenate nella melma delle paludi, la terra sembra incapace di ferire. Tutto è smussato. Il colpo d’occhio indugia. Si accarezzano i profili con un lento detour erotico, cercando varchi in cui penetrare e solleticando le memorie di un passato sovrano che se ne sta accoccolato nei giardini di banani, senza dire una parola. Scomoda sentenza che la corte canuta di Hoa Lu era sempre pronta a pronunciare, nel caso gli eredi reali fossero tentati dalla scappatoia del fratricidio. Verrebbe dunque voglia di deporre le armi e abbandonarsi al placido incedere delle canoe, lungo i lubrici percorsi che dischiudono grotte oscure profonde centinaia di metri. Probabilmente è la stessa sensazione che, mille anni or sono, finì per insinuarsi nel cuore marziale delle truppe cinesi, giunte per punire un popolo lontano ed incomprensibile. Invece trovarono l’invitante corpo di una natura in età fertile, pronta stupire nell’esuberanza della sua procacità.

Eccoli ancora ai suoi piedi, lì a guardare vogliosi guglie dorate di pagode simili a capezzoli eccitati; eccoli resistere a fatica ai fremiti pubici delle foreste lussuriose. Se solo prendessero coraggio. Basterebbe appoggiare un dito per far collassare quegli enormi massi in equilibrio precario, che tutti vedono per quello che non sono. Tranne lui: l’imperatore Ly Thai To.

17.08.07, h. 16.35 – dondolo arrugginito sulla valle di Sapa

La lunga marcia è finita. Di fronte all’ostinatezza degli H’mong dalle dita blu e degli Dsao dai copricapo rossi, non rimane che asserragliarsi dietro le pareti lignee dell’hotel Sapa Summit. Occorre sedersi ad un tavolo di discussione e trovare un compromesso, perché più in là della cascata di Tac Bac, o dei villaggi rurali di Cat Cat e Tha Phin, è impossibile spingersi; se non a costo di ritrovarsi sommersi da montagne di borsette multicolori, copricuscini e gioielli d’argento, che si accumulano gli un su gli altri sino a superare i 3.143 metri del sacro Fansipan. Non cedono un centimetro del loro territorio, perché a nord li aspetta solo la furia mercantile dei cinesi, mentre a valle il riso dei vietnamiti. Allora i metodi tradizionali sono sempre i migliori: slash&burn, abbatti e brucia. Ora che gli alberi hanno ceduto il posto alle terrazze, l’ultima risorsa per sopravvivere sono proprio i forestieri delle piane, che vanno ammansiti per gradi, per livelli, proprio con la stessa paziente cocciutaggine con cui si scolpiscono i fianchi delle montagne. Con loro non servono pezzi di carta: non sanno né leggere, né scrivere. Bisogna arzigogolare nel baratto, adattandosi alle improvvise vie di fuga che rivelano i disegni geometrici dei loro ricami. Tassello su tassello, solo così è possibile ricomporre il mosaico delle 54 etnie per le quali non esiste “il” Vietnam, ma una sequenza di recinti che si susseguono dai rilievi del Tonchino agli altopiani dell’Annam, sino alle sette code di drago che spuntano dalla Cocincina.

19.08.07, h. 22.56 – sul pontile di una giunca fantasma (Halong Bay)

Agli addii non ci si rassegna mai. L’immagine di quella simpatica coniglietta australiana che saluta dalla giunca opposta è molto più che una nostalgia per i tramonti di Mui Né. E’ il volto stesso di un viaggio giunto all’ultimo bivio, nel quale i sensi di marcia sono tornati a descrivere la geografia del territorio, anziché quella della fantasia. Se le gole di Halong Bay si chiudono sotto l’incombente minaccia del mitico drago Tarasco, costretto ad aprirsi varchi nel golfo del Tonchino dopo esser stato disturbato dal suo sonno millenario, le grotte della baia digrignano le proprie stalagmiti, memori della lezione di Tran Hung Dao: l’eroico generale che bloccò la calata dei mongoli con la forza dei pali di bambù nascosti a pelo d’acqua. Sopra le placide onde di quest’angolo di paradiso cala dunque la nebbia dell’oblio, il manto umido del tempo che sbiadisce i colori della passione e ovatta le voci delle sirene. Ma non ci lasceremo rapire dalla nostra giunca fantasma: l’ebbrezza del tuffo è troppo invitante per rinunciare all’abbraccio di un desiderio cinto dalla danza luminescente delle lucciole d’acqua. Lasciateci ai nostri fantasmi, prima che faccia luce…

Epilogo: l'Oriente Estremo

22.08.07, h. 17.23 – alle porte di Dachau

..chilometri calpestati con lo sguardo inevitabilmente in là. Giorni spesi come condannati alla forca, assetati di sapere, smaniosi di far nostro, prima che tutto finisca. Abbiamo raggiunto gli estremi d’Asia, abbiamo scrutato impudicamente nel suo cuore oscuro e violato la sua ingenuità. Abbiamo posseduto terre straniere con la forza della nostra moneta, dischiudendo porte serrate dal silenzio dei secoli, razziando memorie che balbettano mezze verità. Ancor prima di essere invitati, noi vogliamo. Vogliamo vedere. Toccare. Assaporare. Vogliamo provare ed esser cio' che per natura non siamo. Ma di tutti i sensi, l’ascolto è quanto più ci difetta. Ci manca la pazienza di sederci in riva al fiume e attendere l’occasione cui saremo chiamati.

Dobbiamo agire, fare, dobbiamo muoverci in su e in giù, per giocare il tempo d’anticipo e battere una strada che sia innanzitutto nostra. La brama del possesso, il privilegio dell’esclusività e l’accecamento della meraviglia a tutti i costi, ci condannano alla dissonanza nel pentagramma dell’essere.

Siamo immancabilmente troppo in alto o troppo in basso. Note nomadi, pronte ad urlare sempre e solo la nostra presenza. Soffriamo di labirintite, ma non ammettiamo alcun difetto. Tutt’al più lo chiamiamo vertigine. Piacere della caduta che crede di sapere dove stia il fondo, eppur ignora il luogo e il momento in cui il passo si è staccato da terra.

Ci crediamo figli del Cielo, perchè il corpo ci pesa, la materia ci impaccia; non tolleriamo ripiegamenti e ci terrorizza la contrazione nelle rughe dell’io che
si fa sè. Abituati a trattenere il fiato, non siamo più capaci di respirare al ritmo delle onde, nè riusciamo a piegarci al vento delle stagioni come umili fili d’erba.

Abbiamo fretta di vedere cosa sta oltre il giorno che muore, perchè siamo anime d’Occidente; non abbiamo tempo per pensare, perchè avvertiamo l’alito della notte alla nostre spalle. Non è chiudendo gli occhi che scamperemo tuttavia ai nostri incubi.

Dobbiamo imparare ad abitare la cecità, per riconoscere il punto in cui la luce sorge. Lo chiameremo Oriente, Utopia o Paradiso, ma qualunque sia il suo nome, ne diveremmo cittadini solo quando sentiremo affiorare lacrime di compassione per la scomparsa di chi mai abbiamo conosciuto. Perchè lo scheletro rivelato dal nuovo giorno non sarà altro che la parte di noi cui non abbiamo saputo prestare orecchio.

Se l’Oriente è davvero estremo, lo è perchè ci parla del limite che non possiamo trascendere: un limite di fronte al quale si traccia la sottile distanza fra il saggio e lo stolto. Fra l’eroe e la vittima. Lo spazio del sì, che si apre infine all’egoismo del no.


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