"Da quassù la Terra è bellissima, azzurra, e non ci sono confini o frontiere" (Juri Gagarin)

lunedì 19 novembre 2007

PAROLA DI REDUCE

VIETNAM, CAMBOGIA &CO.



Sono trascorsi circa cinque mesi dal mio viaggio nel Sud-Est Asiatico e, pur accingendomi a raccontarne vicende e motivazioni in un reportage pubblico, mi rendo conto che quel vissuto non è ancora riuscito a sedimentare. Non s’acquieta nella memoria. Quando penso d’aver detto l’ultima parola, ecco che ricompare un volto, una smorfia, davanti al quale capisco mio malgrado d’aver commesso un torto.

Vorrei provare a trasmettere quel buffo senso di paternità riconosciuto nella mano di un bimbo – probabilmente orfano - che mi si era aggrappato nel risalire la scalinata del tempio di Preah Vihear, sofferto assaggio di una Cambogia in lotta contro tutto e tutti. Prima ancora di vendermi alcunché, la sua gioia più innocente irraggiava dal poter passeggiare accompagnato da qualcuno. Non mi ha chiesto soldi, facendomi presente piuttosto che se avessi comprato un po’ delle sue cartoline, sarebbe stato carino non dare tutti i miei riel a lui. Un sorriso e via. Già mi aspettava tre gradini più in alto, sotto l’incombente sibilo di una scultura Naga a sette teste, mentre uno stuolo di voci infantili reclamava per uno scatto inaspettato. La mia generosità gli avrebbe forse garantito una bibita fresca e qualche succulento biscotto thailandese ripieno di crema al mango, instillando però l’imbarazzo dell’inadeguatezza nei suoi compagni.

Non ho idea di come si possa esprimere il senso di colpa per una tragedia di cui non si è responsabili diretti, eppure grava sul nostro cuore per il semplice fatto di essere uomini. Mi sembra ancora di vedere davanti a me le braccia atrofizzate di quel povero corpo carbonizzato, che gli aguzzini del carcere di Tuol Sleng si lasciarono dietro in tutta fretta, presi dal panico per l’arrivo inaspettato delle truppe di liberazione vietnamite a Phnom Pehn. Ne hanno rimosso la vergogna, il rimorso e il ludibrio dalla rete arrugginita di un letto su cui riposano solo tenaglie e cavi elettrici, ma basta alzare lo sguardo sulla parete a fronte, per accorgersi che l’ombra nera lì impressa è molto più che uno spettro redivivo.

Continua a stringere quel nodo alla gola manifestatosi d’improvviso alla vista di un vaso trasparente, accantonato fra le reliquie del museo dei crimini di guerra a Saigon. In mezzo al liquido giallastro in esso contenuto non riuscivo a scorgere chiaramente cosa galleggiasse: un colpetto appena e tre occhi sbarrati hanno cozzato contro il vetro, deformando ulteriormente un feto saturo di diossina ed agente arancio. Eredità di un ventre violentato due volte.

La mano non ha avuto il coraggio di appuntare l’orrore L’obiettivo si è rifiutato di volgere impudicamente la propria morbosità all’oblio della ragione. Abbiamo semplicemente raccolto chicchi di speranza scaturiti dagli spruzzi di cascate ai confini degli imperi; abbiamo setacciato acque smeraldine dove i draghi dormono da millenni; abbiamo occhieggiato nelle foreste abitate da statue senza volti e templi innervati dall’ibrido della penombra. Ci siamo uniti alla danza delle lanterne di loto nei teatri di corti spodestate, confondendoci fra cappelli a forma di cono e pagode presidiate da orchi sputafuoco, inseguendo le tuniche arancioni di bonzi andati irrimediabilmente in fumo.

Ma quando pensavamo di aver riconosciuto finalmente quel riso cristallino e dimentico d’ogni perché, voltandoci non abbiamo trovato altro che la smorfia di un teschio, una costola abbandonata nella terra ormai sterile.

Le nostre memorie non sono niente più che frammenti scomposti e decomposti, incapaci di risvegliare un ordine e insofferenti alla selezione. Talvolta urlano la bellezza attraverso la turpidudine. Tal’altra ostentano la polpa marcia che si cela sotto la menzogna della fioritura.

Comunque sia, all’appello della nostra coscienza mancherà sempre qualcuno o qualcosa. Forse l’essenziale. Magari il superfluo che dà senso alla vita. Il problema è che siamo sì partiti, ma lungi ancora appare il ritorno. Sorte volle che noi pure si fosse eroi di una guerra minore. Reduci col fucile scarico e un fiore fra i capelli.



ALLA RICERCA DEL COLONNELLO KURTZ

Macherio - Un viaggio nato da una data, più che dalla ricerca di un luogo. Tagliato il traguardo dei 30 anni, è stato per me inevitabile rivolgere la mente a quanto fosse sopravvissuto, e quanto invece estintosi, nelle aspettative che animavano il 1977. Se l’ultimo grande sussulto rivoluzionario, volto a cambiare la società cui ci siamo consegnati in modo più o meno inerme, si leva infatti dall’anno della rabbia e dei sogni appassiti troppo in fretta, il senso di quella stagione traluce in modo paradigmatico nella storia della Cambogia e del Vietnam, visitati appunto la scorsa estate: fu solo nel 1977 che il mondo apprese per la prima volta di come a capo dei khmer rossi, l’avanguardia del socialismo contadino emancipatasi da Marx e Lenin, fosse un uomo di nome Pol Pot. Da lui ci si aspettava il Paradiso in terra; se ne guadagnò solo l’Inferno del genocidio. Indirettamente figlio della guerra americana in Vietnam, resta tuttora il monito degli orrori che solo dieci anni prima della sua “comparsa”, nel 1967, la generazione del “flower power” pensava di cancellare attraverso la pace e l’amore.

Il reportage “Dispacci indocinesi” che avrà luogo venerdì prossimo, 23 novembre, presso l’auditorium di via Italia a Macherio, è dunque un omaggio alla memoria degli eroi e delle vittime di quella stagione, nonché una dovuta riflessione sulla figura del dittatore arrestato dieci anni fa e spentosi serenamente pochi mesi più tardi. Dalle ore 21, l’auditorium aprirà per una mostra sulle cartoline fotografiche dedicate alla guerra in Vietnam, vista da reporter occidentali e vietnamiti, accompagnata dall’esposizione di artigianato asiatico a cura della cooperativa monzese Il Villaggio Globale, nonché da un rinfresco tipico. La successiva proiezione di diapositive si focalizzerà su Vietnam, Cambogia e Thailandia, venendo intervallata da letture di autori locali, testimonianze di associazioni umanitarie e numeri di danza a cura della scuola Giselle di Biassono e Spazio Danza di Monza, oltre al contributo del Centro Studi Arti Orientali di Milano (che organizzerà un laboratorio di massaggi thai). L’iniziativa è presentata dall’associazione culturale “La Manifattura” , sotto il patrocinio del Comune di Macherio, ed ha ne “Il Giornale di Carate” il proprio media partner.



HELLO VIETNAM!

Hanoi - “Vientam! Vietnam! Vietnam! Ci siamo stati tutti”. L’urlo di Michael Herr, ineguagliato cronista della guerra americana nel sud-est asiatico, nonché straordinario sceneggiatore di film quali “Apocalypse now!” e “Full metal jacket”, suona oggi più una sfida che un epitaffio di chiusura ai suoi famosi “Dispacci”. Costretti a sorbire per oltre 30 anni i mea culpa di Hollywood, al pari della rinascita dell’orgoglio militarista yankee, il Vietnam di cui tanto, forse troppo, si è parlato sugli schermi - benché inevitabilmente dato per disperso fra i titoli dei giornali e dei notiziari dopo la vittoria dell’aprile 1975 - continua a spiazzare.

Pur senza volerlo, siamo infatti tutti un po’ marines nella terra del drago Tarasco, la leggendaria creatura sonnolenta che disegnò il profilo a panettoncino della baia di Halong Bay, per la gioia delle riviste patinate: ragazzotti ben nutriti che credono di sapere cos’abbiano di fronte, forti della propria moneta quanto un tempo lo si era del proprio mitra, magari meno spigliati nel riconoscere un assolo di Jimi Hendrix alla radio, eppur sedotti dagli strabilianti neon di Ho Chi Minh City (l’ex Saigon) e dalla frenesia liberista del Dao Moi (la politica di “rinnovamento” economico che, dal 1986, ha gradualmente trasformato l’orgoglioso baluardo del socialismo filosovietico nella più aggressiva tigre del sud-est asiatico).

Capita poi d’imbattersi nel museo dei “Crimini di guerra” delle vecchia capitale del Sud, o in un bimbo dall’impossibile volto anfibio, con le gambe deformi e le braccine ridotte a frenetiche pinne a causa dei defolianti americani, per iniziare a chiedersi se non si sia per caso finiti in un incubo astutamente mimetizzato nelle meraviglie della jungla urbana: perché l’orrore in Vietnam, così come avviene nella vicina Cambogia, è stato solo occultato, non cancellato. Sulle candide spiagge di Mui Né, fra le botteghe secentesche di Hoi An o sotto i picchi calcarei di Tam Coc, pare infatti di rivedere il paese brulicante e faccendiere in cui amava puntare il naso Mandarino Tan – sorta d’ispettore Montalbano creato dalla felice penna delle sorelle Tran – ma basta avvicinare un anziano seduto a contemplare una risaia, oppure chiedere ad un giovane perché si accontenti di fumare oppio dalla mattina alla sera, per capire che forse qualcosa non va. Che questa smodata sete di futuro è più paura di guardarsi indietro. Che in mezzo ad un’impressionante massa di ciclisti e motorbikers, trovare una famiglia integra è oggi più arduo che disotterrare una mina fuori casa. Che dietro la retorica del Partito, si aggira ancora lo spettro dell’ex primo ministro “sudista” Ngo Dinh Diem.

Ecco perché l’urlo di Michael Herr è al tempo stesso liberatorio e frustrante. Ci invita a scoprire un paese d’incomparabile bellezza, dalla storia tormentata e gloriosa, capace di bloccare le orde dei Mongoli, di mettere in riga gli eserciti infiniti del Celeste Impero ed umiliare la più grande potenza militare del mondo, salvo poi scoprire insondabilmente il fianco ai vizi peggiori: corruzione, speculazione, prostituzione, diseguaglianze sociali ed amnesie storiche. Il Vietnam di oggi non è il paese granitico che la vecchia guardia del Partito comunista si ostina ad incensare, ma riflette in modo contraddittorio gli slanci eroici e le cadute bibliche delle grandi utopie; un mosaico di fotogrammi che non si lasciano racchiudere in una categoria definita, ma sfumano proprio come le sue 54 minoranze etniche, sui cui volti ci ostiniamo a cercare l’ineffabile Charlie. Di una cosa, però, siamo certi. Quando avremo sentito battere per davvero il cuore di questo Paese, ci ritroveremo davanti alle bandiere del mausoleo di Ho Chi Minh con gli stessi occhi del poeta Evtushenko; e insieme a lui, lasceremo affiorare le parole troppo a lungo taciute: “Arrivederci, bandiera rossa! Eri metà sorella, metà nemica…eri in trincea speranza unanime d’Eurasia, ma tu di rosso schermo recingevi i gulag. Giace la nostra bandiera nel gran bazar d’Ismajlovo. La smerciano per dollari, alla meglio. Io non ho assaltato il palazzo d’Inverno, non ho preso il Reichstag. Non sono un kommuniak. Ma ti guardo e piango…”.



FRA GLI H'MONG E GLI DZAO

Cat Cat – Uno sguardo a destra. Uno a sinistra. La via parrebbe libera; ma non appena metti piede fuori dal tuo rifugio, loro sono già lì. Astutissimi questi H’mong! Quando punti l’obiettivo sui loro meravigliosi costumi ricamati in blu, sui sottili anelli d’argento che lasciano pendere dalle orecchie o su quei visi dai lineamenti più morbidi di un bassorilievo Cham, in qualche modo sanno eludere sempre la tue sete di meraviglia. Se invece il momento è propizio per accollarti una coloratissima borsetta cucita a mano, o addirittura un portacellulare decorato col tradizionale motivo a fiori della tribù, non c’è verso di sottrarsi alle loro insistenti attenzioni. Magari non sanno neppure a cosa serva un “portacellulare”, però hanno capito che quella forma piace agli stranieri in arrivo sotto le pendici del monte Fansipan – a un tiro di schioppo dalla Cina – e allora figlie, madri e nonne si contendono ago e filo per giorni, così come hanno fatto per secoli, decise a strappare la loro ciotola di riso quotidiano. Gli H’mong sono fatti così. Preferiscono vivere del lavoro delle proprie mani, piuttosto che rendersi schiavi delle macchine, o sedere dietro il banco di una scuola. Spianano terrazze al limite della pendenza sui fianchi delle montagne, benché il governo sia pronto a conceder loro immensi campi da coltivare.

Invece no. Essere un H’mong dalle dita blu, uno Dzao dal copricapo scarlatto, o – come avrebbero tagliato corto gli sprezzanti colonialisti francesi – un “montagnard”, significa appartenere al Vietnam che non scende a compromessi. Far parte di quelle tribù che, calate dallo Yunnan cinese nel XVIII secolo o risalite dalle isole australi, continuano a difendere le loro credenze animiste e a rivendicare il diritto alla nomadicità, allorché la loro tecnica agricola del “taglia e brucia” non dia più frutti.

Le tribù “montagnards” vietnamite sono almeno 54 , dislocate da nord a sud lungo la cordigliera dell’Annam, e sono riuscite a guadagnarsi il rispetto del Partito Comunista grazie al prezioso contributo che offrirono negli anni della guerra: facendo scoprire vie secondarie strategiche, o aiutando a trasportare quell’artiglieria letale che aprì ai Viet la vittoria in battaglie epiche come Dien Bien Phu, contro i francesi nel ‘54, o durante la famosa offensiva del Tet nel ’68. Oggi vantano nella capitale Hanoi il più affascinante museo etnologico del Paese, gestito in collaborazione con il Louvre di Parigi, e rappresentano l’altro volto di un Vietnam in gran parte sconosciuto.



IL LATO OSCURO DELLA CAMBOGIA

Phnom Pehn - Qui la chiamano “madame”. Negli uffici dell’associazione che ha fondato nel 1996, l’Afesip (www.afesip.org), è una sorta d’angelo, una presenza rassicurante che – seppur lontana dalla sua natia Cambogia – lancia messaggi d’aiuto attraverso le foto appese alle pareti, o i manifesti di sensibilizzazione contro lo sfruttamento sessuale. La si vede in compagnia dei sovrani di Spagna, con l’onorevole Emma Bonino o a fianco di papa Giovanni Paolo II: potenti della politica, così come semplici simpatizzanti, chiunque possa contribuire a debellare una delle peggiori piaghe che, insieme all’Aids, affligge la Cambogia d’oggi.

“Ora Somaly Mam si trova in Francia – mi spiega Or Samnang, responsabile amministrativo della sede Afesip di Phnom Pehn – perché in estate è più facile trovare in Europa chi ti ascolti. Certi problemi diventano reali solo quando devi partire per le vacanze. Di fondi, tuttavia, ne abbiamo bisogno sempre: da quando il governo ha deciso di appoggiarci, riusciamo a riscattare dai bordelli decine di ragazze, che vanno poi curate, educate e reinserite socialmente, dopo almeno sei mesi di preparazione”.

Di fronte a noi, una tabella fa il punto sulla situazione a luglio: 148 operazioni di riscatto sono andate a buon fine. Tradotto: 148 ragazze dovranno essere sottoposte ad esami medici, a corsi di specializzazione professionale (come parrucchiere o tessitrici, coltivatrici di riso o disegnatrici d’abiti) e, infine, tornare alla vita civile. Chi viene respinta, a causa di quella macchia che la stessa Somaly continua a portarsi dentro, torna talvolta a prostituirsi: condom e precauzioni sanitarie sono in questo caso l’unica assistenza che l’Afesip può fornire, sempreché durante i rapporti qualcuno non si ribelli piantando un chiodo in testa alla ragazza di turno, o ricorrendo a punizione corporali ispirate al sadismo del carcere di Tuol Sleng, l’ex liceo della capitale che, negli anni ’70, i Khmer rossi trasformarono in una perfetta macchina da morte.

Nessuno s’illude sui lieto fine dei riscatti, tanto più che il boom turistico degli ultimi anni riversa nel Paese frotte di occidentali pronte a pagare sino a 100 dollari (quasi 3 mesi e mezzo di cibo e vestiti garantiti per un cambogiano medio), per violentare bimbe o bimbi di 8 anni, se non poco più. Per questo diverse associazioni umanitarie cambogiane si sono unite nel progetto “Stay Another Day” (www.stay-another-day.org), grazie al quale è possibile trascorrere parte del proprio viaggio a diretto contatto con realtà forse non pittoresche quanto i templi di Angkor, ma più che mai decise ad urlare al silenzio gli orrori di una guerra conclusasi solo sulla carta.



UNA NOTTE AD ANLONG VENG

Anlong Veng – “Dobbiamo fermarci”. Boreak mi lascia basito. Non che abbia qualcosa da obiettare. In fondo ci troviamo solo dispersi fra le foreste dei monti Dangkrek, a notte fonda, in un punto imprecisato fra il confine settentrionale cambogiano e quello thailandese. Però è la prima volta che sento un khmer prendere posizione, senza cercare almeno di assecondare il suo interlocutore. Un atteggiamento che va contro secoli di buddhismo theravada e che mai ci si sarebbe sognati di tenere sotto il regime di Pol Pot.
“Mine. Qui a lato. Laggiù. Troppo pericoloso”. Effettivamente viaggiare in moto con un solo flebile faro ad illuminare le ombre dell’odio, è forse oltre la portata di chiunque conservi un briciolo di buon senso. Per tutto il giorno mi ha guidato sui luoghi che ogni cambogiano vorrebbe relegare nelle maglie dell’oblio: l’arena di pali rinsecchiti dentro la quale il Fratello n.1, l’artefice del peggior genocidio del XX secolo, venne giudicato dai suoi gerarchi nel 1997; l’ammasso di ceneri del dittatore, cremato su una pira di pneumatici e rifiuti; il masso traballante su cui gli ultimi khmer rossi scolpirono l’orgoglio di quasi 20 anni di guerriglia, ormai braccati dalle truppe governative. L’accondiscendenza di Boreak ha però un limite: ed è forse questa la sua conquista più grande. Fossi stato un suo superiore quando vestiva la divisa da ribelle, sarebbe andato avanti sino a farsi esplodere su una mina. Oggi ha messo su famiglia, lavoricchia come guida turistica e collabora con un suo amico medico, insieme a cui gestisce una cooperativa agricola di riabilitazione per ex soldati, nella lontana provincia di Kompong Thom.

Mi fa accomodare dentro un rudere in cui brucia qualche candela. Sulle pareti scrostate ci sono scritte inquietanti. “Ta Mok assassin de l’histoire!”. “I hate you all!”. “Sangue! Sangue! Qui sanguina tutto”. E’ uno degli ultimi rifugi utilizzato dallo “zio” Mok, il braccio destro di Pol Pot, ormai preda del rancore di chi ha perso tutto per causa sua. Ogni tanto arriva qui gente che ha voglia di pregare, che vuole accarezzare le macchie rosse sui muri per lenire la rabbia degli spiriti. La Cambogia resta pur sempre un paese dove la magia avvince gli animi dei contadini, pronti a sventrare una donna incinta e ad esporre fuori dalle capanne il suo feto, qualora si sentano minacciati dai sussurri delle tenebre. Non è forse il caso della ragazza che vedo accoccolata sulla parete opposta. Mi guarda esterrefatta. “Ciao. Come va? Vengo dall’Italia”. Mi sorride. Il solito, enigmatico sorriso khmer. Un sorriso che non riesce a nascondere i tic di un trauma di cui – malgrado tutto - mai sapremo nulla.



NELLE BRACCIA DI BUDDHA

Bangkok – Per un attimo il rito s’interrompe. Mi lasciano sedere sulla soglia del tempio, mi guardano un po’ perplessi, quindi ricominciano ad intonare i loro mantra ipnotici. Senz’altro avranno notato i miei occhi arrossati e l’espressione non troppo sveglia, ma può darsi pensino sia dovuto all’intorpidimento per una levataccia all’alba. Al Wat Arun, quella straordinaria riproduzione del mitico Monte Meru in cui gli antichi dei Indù hanno ceduto il posto alle decorazioni floreali buddhiste, non sono rari i pellegrini della buon’ora. Pagano il loro obolo-bath sulla sponda opposta del fiume Mae Nahm e, in pochi minuti, si lasciano alle spalle la Bangkok del vizio per la quiete monacale. Effettivamente la notte non è stata riposante: deciso a ritrovare le tracce di “Cowboy soldier”, il fratello nero americano che negli anni ’70 ripudiò il Vietnam per inaugurare il primo vero business del sesso nella Città degli Angeli, ho finito per girovagare nel “soi” a lui consacrato imbattendomi solo in squallidi peep-show, anziché in oppierie maledette dove avvicinare reduci nati il 4 luglio.

Di là l’oblio, di qui la palingenesi. Stanchi di una vita fatta di telefonini di grido e creme antirughe, sono sempre più numerosi i giovani che si sottopongono all’iniziazione buddhista per farsi monaci mendicanti. Se in paesi quali la Birmania o la Cambogia è ancora un buon metodo per ricevere istruzione e di che sfamarsi, qui in Thailandia è piuttosto l’eccesso di consumismo ad illuminare la via del Nirvana.

Mi domando chi sia quel ragazzo già un po’ pingue e rapato a zero, che i fratelli in tunica arancione obbligano a sedere sui calcagni, procurandogli violente fitte nelle gambe. Ogni volta che stecca una formula imparata a memoria, deve ricominciare la preghiera da capo, ripetendola sino all’ossessione, armonizzando la sua voce a quella della congregazione paciosamente accovacciata sotto la stutua d’oro di Siddartha. Quindi il momento della benedizione: un fiore di loto viene intinto nell’acqua santa, cosicché le gocce possano essere asperse sul suo capo penitente. Si sfaldano sui tappeti le ceneri aromatiche degli steli votivi: è tempo di tornare al di là della sponda e fare i conti con la propria coscienza.

1 commento:

Rosa ha detto...

...sempre in giro per il mondo...eh amico mio?
..Spesso ti invidio...